Leggo su “La Nazione” una notizia molto “italiana”. La scrivono Stefano Cecchi nella rubrica di prima pagina e Geraldina Fiechter nella sua pagina dedicata ai lettori.
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Dunque la storia. Viviane, che è straniera ma vive a Firenze, pedala in bicicletta per le vie della città. Le squilla il sempre inopportuno ma irrinunciabile cellulare e lei risponde. Due vigilesse la vedono e decidono di farle passare una pessima giornata. Multa! Come multa? Sì, multa, e che multa:
300 euro a una signora che pedala, invece di inquinare e contribuire a congestionare il traffico con l’auto.
Non valgono le lacrime e le scuse. Il codice parla chiaro: è vietato parlare al cellulare mentre si va in bici. Sull’ottusa, a volte, inflessibilità dei vigili ci sarebbe molto da dire. Ma la storia, tutta italiana, sta da un’altra parte.
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La stessa Viviane, un mese prima era rimasta bloccata con la sua auto in sosta da un Suv lasciato in seconda file. E dove sennò? E’ notorio, pur senza voler generalizzare sui proprietari di Suv, che le macchine grosse, che difficilmente trovano parcheggio, si lasciano in seconda fila…
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La signora, bloccata, vorrebbe tornarsene a casa e chiama i vigili. I quali, non solo arrivano con la dovuta calma, ma alla fine, sopraggiunto il proprietario del Suv, decidono di amnistiarlo sul momento: niente multa per divieto di sosta e tanti cari saluti.
Questa storia ci dice molto sul nostro Paese, sulla tendenza neppure celata, che abbiamo nell’essere deboli con i forti (il proprietario del Suv) e forti con i deboli (una signora straniera in bicicletta).
Se esiste una legge che la si rispetti. Ma il miglior giudice, in questo caso due vigilesse, è quello che applica la legge con buonsenso. La pena deve essere sempre equa e tra uno che risponde al cellulare mentre va in bici (300 euro di multa) e uno che lascia l’auto in seconda fila (graziato) stabilite voi dove stia il giusto e l’insensata arroganza.